Il duello era il suo modo preferito di esprimersi. Augusto Franzoj cominciò quando era ancora studente, i suoi compagni di classe gli avevano fatto un torto, secondo lui, e lì sfidò a duello, tutti insieme contro di lui. Nella colonia italianadell’Eritrea, sfidò il comandante del presidio militare, il colonnello Tancredi Saletta, ingiungendogli di scegliere l’arma per l’occasione. Il comandante rispose che sceglieva l’Arma dei Carabinieri; detto fatto, due robusti militi accompagnarono il mancato duellante sul primo bastimento in partenza per l’Italia.
E dire che Augusto era di buona famiglia, era nato nel 1848 in Piemonte, suo padre era notaio, la famiglia tranquilla e benestante; il ragazzo, crescendo, si rivelò sempre più indocile, non si sapeva dove metterlo. A diciotto anni parte volontario alla III Guerra di Indipendenza, torna avvelenato dalla sconfitta italiana, pieno di rabbia contro generali
e governanti, si fa mazziniano fervente. Dopo un po’ lo misero in carcere, evase ma si rupe una caviglia e ce lo rimisero. Le onde si placarono, poté tornare a casa, ma si era messo in testa di andare in Etiopia, a recuperare le ossa dell’ ingegnere Giovanni Chiarini, un esploratore nato a Chieti morto avvelenato dalle pozioni della perfida
regina di Ghera, una specie di strega che governava un pezzetto di Abissinia.
Dal porto di Massaua si inoltrò verso l’interno; aveva soltanto un somaro e una sacca con le sue povere cose, e ad un cero momento, i predoni gli portarono via tutto, lasciandolo completamente senza risorse. Allora, invece di tornare indietro, si improvvisò medico e cavadenti, rifilando agli indigeni improvvisate e innocue pozioni
e improbabili medicamenti. Gli abitanti della regione, vedendo che era ancora più povero di loro, lo rifocillavano e gli consentirono di proseguire il viaggio.
Si presentò al Negus Giovanni, che gli negò il permesso di continuare; Augusto lo affrontò così
duramente da lasciare sbalordito il feroce monarca, che lo sospettò essere un uomo molto potente, e lo lascò andare. Alla fine arrivò e trovò i resti di Chiarini.
Era capitato, qualche anno prima, che due italiani, Giovanni Chiarini e Antonio Cecchi, si erano addentrati in quella regione e la regina, già avanti con gli anni, si era invaghita di Cecchi, e, per scoraggiare la sua uscita dal regno, aveva somministrato al suo compagno, Chiarini, un micidiale beverone che lo uccise dopo diversi giorni di
sofferenze. D’altronde Ghennè Fa, il suo nome significava “ Io regno da sola “, era nota in tutta la regione come la Regina Avvelenatrice. Quando uno dei suoi innumerevoli amanti la stancava oppure quando si convinceva che una persona costituisse un pericolo, gli propinava intrugli che non perdonavano.
Augusto recuperò i resti di Chiarini, affrontò la collera dell’Avvelenatrice, la domò minacciandola di improbabili interventi di poderosi eserciti europei per punirla, lei si spaventò e lo lasciò partire. Era solo, senza risorse, portava il fardello di Chiarini, per sopravvivere si aggregò a una carovana di schiavisti arabi, dove ne vide di tutti i colori,
lasciando scritti impressionanti sulle tribolazioni degli schiavi. Riuscì a rientrare in Italia, avendo dimostrato che un uomo disarmato e senza risorse poteva attraversare una parte dell’Africa contando solo sulla benevolenza degli abitanti e sulla fortuna, naturalmente. Un episodio di rilievo, in un’epoca nella quale gli europei in Africa ci
andavano quasi sempre accompagnati da battaglioni di guardie, mercenari e tagliagole.
Un giorno, nel 1911, i vicini di casa, a San Mauro Torinese, sentirono due colpi di pistola simultanei, e il figlio di Augusto, Vincenzo, corse dal padre che si era suicidato.
Anni prima, aveva già tentato di uccidersi, ma con una pistola sola, questa volta voleva essere sicuro…
Nella stanza dove aveva concluso i suoi giorni si inventariarono armi tribali etiopiche, indumenti coloniali, un ritratto di Chiarini, e uno di Giuseppe Mazzini.



